Francesco Colella su LINUS di marzo 2010

 Pagine 88 e 89, Renato Palazzi, nella sua rubrica LINUSTEATRO, traccia il profilo, dal titolo "GIFUNI E I SUOI FRATELLI", di "NUOVI ATTORI" che "CRESCONO E SI IMPONGONO ALL'ATTENZIONE NAZIONALE. UNA MAPPA DI QUESTO PANORAMA IN VORTICOSO DIVENIRE".
Tra i 22 attori che si stanno imponendo sui palcoscenici italiani, secondo l'autorevole Renato Palazzi, c'è anche Francesco Colella: "...di scuola ronconiana è anche il bravo Francesco Colella, visto in vari, notevoli spettacoli del Picoolo Teatro, ad esempio nel mirabile Infinities, dove era uno dei direttori dell'albergo infinito, ma soprattutto nel recente Dettagli, un altro testo di Norén di cui era l'irresistibile protagonista maschile al fianco del più anziano Giovanni Crippa...".
Gli fanno compagnia nomi come Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Giuseppe Battiston, Elena Ghiaurov, Melania Giglio, ... e altri. "Un nutrito gruppo di attori" che "si sta perentoriamente imponendo all'attenzione nazionale, affiancandosi poco a poco a quel ristretto numero di colleghi più maturi e collaudati, da Massimo Popolizio a Toni Servillo, a Sandro Lombardi, che già da tempo vanno lasciando una traccia determinante sui nostri palcoscenici."...
Un numero, il n°3 di LINUS 2010, da non perdere. Per chi ama il teatro, per chi segue Francesco.


Considerazioni ALTE sul teatro e ... Di R. Palazzi


Che cosa è totalmente e inesorabilmente calato nel Novecento, e che cosa invece potrebbe spingerci o accompagnarci nel domani? Un piccolo gioco-esercizio intellettuale dal quale non è escluso che si riesca a ricavare qualche interessante indicazione.
Forse molti non se ne sono accorti, ma sono già passati dieci anni da quando abbiamo varcato le frontiere del Duemila. Dieci anni, nella nostra vita, possono essere pochi o tantissimi, ma in questo caso hanno un significato preciso, ovvero che chiunque abbia superato le soglie della pubertà appartiene al secolo scorso. Appartenere al secolo scorso non è in sé una colpa: ma nel campo delle idee e delle abitudini culturali tante cose che ci appaiono attuali si stanno impercettibilmente allontanando. Il Novecento, poi, è stato un secolo particolare, fatto di vertiginose spinte in avanti e di improvvise inversioni di marcia, di sussulti e di cadute.
Ora, a mio avviso, esso sta diventando, più che un arco di tempo, una categoria del pensiero che ci si impone di cominciare a decifrare. Quanti concetti, quanti schemi intellettuali su cui quasi inconsapevolmente continuiamo a fare conto restano in fondo direttamente legati alle sue radici? E spesso si tratta proprio di quelle esperienze che allora risultavano più avanzate e innovative. Non è detto che oggi debbano essere considerate superate: ma dobbiamo prepararci a sottoporle a qualche attenta verifica.
Io, personalmente, mi sento troppo affezionato ai miei antichi pregiudizi per procedere a una selezione troppo approfondita: ma essendo la questione affascinante, trovo utile provare ad affrontarla con un piccolo gioco dal quale si potrebbe ricavare qualche interessante indicazione. Vi invito dunque a dedicare una minima parte del vostro tempo a stilare - arbitrariamente, soggettivamente - dei personali elenchi di ciò che a vostro parere rimane del tutto calato nel Novecento, e di ciò che invece potrebbe accompagnarci nel domani. Lo propongo come gioco perché il gioco è, appunto, innocuo, senza conseguenze: non comporta sentenze definitive, non implica di buttare via nulla, ma nella sua libertà può suggerirci dei criteri, può persino aiutarci a riconsiderare con occhio diverso qualche mito consolidato.
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Partiamo da alcune solide certezze: il Sessantotto, con tutto quanto ne consegue, slogan, occupazioni, barricate, cubetti di porfido appartiene inequivocabilmente al Novecento, così come i Beatles, lo scioglimento dei Beatles, i libri di Jan Fleming e CasablancaSui canti delle mondine avrei invece qualche dubbio, così come sull’eskimo e sugli western italiani. Le “strisce” di Schulz, le vignette di Copi e quelle di Wiz il mago - non perché questo articolo è pubblicato su “Linus” - pur collocandosi nel cuore del Novecento lo trascendono e non perdono il potere di graffiare e provocare. Umberto Eco, a occhio e croce, è Novecento, mentre Mike Bongiorno è già assurto a una dimensione assolutamente universale.
Non vorrei dire un’eresia, ma ho l’impressione che l’Ulisse di Joyce sia profondamente conficcato nel Novecento, mentre Kafka se ne distacca alla grande. Con buona pace dei collezionisti, Picasso mi fa pensare al Novecento, eMarcel Duchamp guarda negli occhi il Duemila. I “tagli” di Lucio Fontana sono un altissimo prodotto del Novecento, i “cretti” di Burri sfuggono a qualunque tentativo di definirli o classificarli. Sfido anche l’impopolarità affermando che Fabrizio De Andrè mi sembra abbastanza Novecento, e invece Giorgio Gaber va collocato in un orizzonte ben più ampio.
Fellini, secondo me, non lo schiodi dal Novecento, Antonioni aspetta ancora che arrivi il suo momento.Bergman è ancora lì a macerarsi nel Novecento, Hitchcock se la ride di qualunque calendario. Mastroianni è Novecento, Nino Rota ci toccherà ascoltarlo per i secoli a venire. Gassman è un superbo animale del Novecento, a Tognazzi starebbe stretto anche il Duemila. Marlon Brando sarà il più grande del Novecento, ma il profilo spigoloso di Clint Eastwood resta scolpito nel presente. Nicole Kidman non ha mai superato le soglie del Novecento, Sharon Stone è nel Duemila, e lotta insieme a noi. Per quanto riguarda la Bardot, nel suo genere è inarrivabile: ma una che si faceva chiamare B.B., come si fa a non trovarla indissolubilmente Novecento?
Ma proviamo ad applicare il procedimento al mondo del teatro, come è giusto che sia, giacché è di questo che la rubrica si occupa. Per quanto riguarda le strutture, si pensava che i teatri Stabili, coi loro apparati spettacolari, coi loro consigli d’amministrazione, con la loro idea di servizio pubblico fossero una conquista acquisita, e stanno invece dimostrandosi una tipica realtà del Novecento. Negli anni Duemila va emergendo la funzione di certi nuovifestival, che non sono più delle semplici vetrine di spettacoli, ma  diventano dei laboratori permanenti, dei centri produttivi, dei sensibili osservatori su quanto avviene nel territorio.
I ricchi e imponenti impianti scenografici sono terribilmente Novecento, i muri nudi e scrostati del palcoscenico sono totalmente anni Duemila. I costumi sono Novecento, i jeans, le felpe, le t-shirt stampate, letute sportive sono anni Duemila. La regia, quella degli Strehler e dei Visconti, è palesemente Novecento: gli stessi registi più importanti, in qualche misura, se ne sono accorti, tant’è che sempre più spesso, anziché allestire i grandi testi  nella loro totalità, propongono delle scene da (Amleto, Romeo e Giulietta), degli smontaggi e rimontaggi dei testi, degli “studi” comunque fuori dalla logica del prodotto finito. Si impongono, negli anni Duemila, certe procedure di composizione collettiva dove la definizione e il ruolo stesso della regia spariscono, sostituiti da altre modalità di interventi creativi. È prettamente figlio del Novecento, ma assolutamente evergreenLuca Ronconi, che a settantasei anni e in difficili condizioni fisiche non ha perso la volontà di sperimentare, di mettersi in discussione.
Sono inesorabilmente Novecento le “attualizzazioni” dei classici, coi nazisti, i marines, i blindati della guerra in Iraq che irrompono nei drammi di Shakespeare o di Ibsen. Sono anni Duemila i testi detti, enunciati, neppure recitati ma riversati addosso al pubblico da attori immobili che li pronunciano con toni più o meno impersonali. Lo “straniamento” è Novecento, ma con Brecht non abbiamo ancora finito di fare i conti.  È Novecento l’idea in sé di sperimentazione, di teatro di ricerca, è anni Duemila il dare per acquisite certe nuove forme espressive diverse dalle precedenti, in una dimensione in cui cadono le distinzioni fra avanguardia e tradizione. E’ Novecento far recitare dei finti extracomunitari, dei finti tossicodipendenti, dei finti carcerati. E’ anni Duemila portare in scena dei delinquenti veri.
Grotowski è del Novecento, i lituani sono del Duemila. Il Living Theatre è del Novecento, Carmelo Bene è già proiettato nel Tremila. Dario Fo è del Novecento, Walter Chiari si sottrae fulgidamente a ogni collocazione temporale. Sono del Novecento Sarah KaneMark Ravenhill e tutti gli esponenti della drammaturgia inglese pulpe affannosamente trasgressiva, sono del Duemila Tim CrouchMartin Crimp e gli altri autori che smontano e azzerano le strutture del copione. Con l’eccezione di Lagarce, che a quindici anni dalla morte resta ancora in gran parte da scoprire, temo che il teatro francese tutto in blocco, da Anouilh a Genet, da Camus a Sartre, sia completamente Novecento. Koltès sembra per ora saldamente ancorato alle nostre aspettative di abitanti del Duemila, ma attenzione: tra non molto potrebbe essere a sua volta risucchiato nei meandri del Novecento.
Da sempre e per sempre le atmosfere sospese e i dialoghi inconcludenti di Pinter sono immersi inequivocabilmente nel Novecento, e da lì non si esce, mentre Thomas Bernhard - con le sue amabili ossessioni, con la sua scrittura ondivaga, priva di un assetto stabilito - ci accompagnerà costantemente attraverso i secoli. Cechov è sotto ogni aspetto del Novecento, anzi è una prefigurazione, una folgorante sintesi ante litteram degli stati d’animo dell’uomo novecentesco, ma questo non significa nulla: potremo mai fare a meno di uno che aveva previsto fin da un secolo fa l’avvento delle villette a schiera?
Non oso dirlo neppure a me stesso, ma l’autentica incognita, il quesito davvero imbarazzante potrebbe a mio avviso riguardare Samuel Beckett: lui resta chiaramente il più grande di tutti, il più definitivo, una fonte di suggestioni praticamente inesauribile: ma comincia a insinuarsi qualche lieve sospetto che proprio questa sua grandezza senza mezzi termini sia di per sé un concetto vagamente novecentesco.
Renato Palazzi
Tratto da www.linus.net